28.2.17

Recensione: "Jackie"




La storia di Jacqueline Kennedy circoscritta ai pochi giorni seguenti l'attentato di J.F.K.
Grande cinema, a tratti faticoso, ma capace di far riflettere sul potere, sulla perdita di esso, sulla solitudine, sulla storia personale e su quella che poi conosceranno tutti.
E per fare tutto questo Larrain non si serve di un'attrice.
Preferisce una Dea.

Chi mi conosce sa quanto io non sappia nulla di politica.
E pochissimo di Storia.
Capirete che con questi presupposti andarsi a vedere Jackie, così, sapendo 2,3 cose in croce su J.F.K e di Jacqueline, non fosse sicuramente l'approccio migliore possibile.
Poi, lo sapete, io guardo un film senza prendere informazioni nè prima nè dopo (o almeno non prima di scriverne), quindi nemmeno un tuffo su Wikipedia mi avrebbe potuto aiutare.
Quindi se qualcuno commenterà questa povera recensione buttandola su giudizi politici sappia che ha sbagliato strada. Anche se, tali giudizi, possono essere per me l'occasione di saperne di più ed imparare.
Eppure ci sono stati più motivi che mi hanno portato a questa scelta.
- La Portman.
- Larrain.
- Un trailer lirico (non li vedo mai ma questo, per fortuna, m'era capitato sott'occhio).
- Il fatto che il film non fosse un biografico (che mal sopporto) ma il racconto di una sola vicenda e di pochi giorni.
- Il dovere vedermi 4 film gratis entro il 15 Marzo.

Quindi, decidendo appena mezz'ora prima, sono andato.
E mi sono visto Jackie con un'ottica puramente cinematografica ed umana, come fosse una storia nuova per me.
Come fosse cinema.




Dico subito una cosa.
Ebbi problemi con Neruda.
Ma scrissi subito che erano problemi solo miei, non oggettivi.
Perchè ho la sensazione che Larrain sia un regista grandissimo e che se qualche volta ho difficoltà è un problema mio.
Come se alcuni dei suoi film fossero più grandi di me. 
E' un pò quello che mi accade con gli ultimi P.T.Anderson. Non riesco ad amarli del tutto ma sento dentro di me che sono film straordinari, degni di uno dei più grandi registi contemporanei.
Come, del resto, è Larrain.

27.2.17

Recensione: "Beyond the Black Rainbow"



Destabilizzante.
Impresa improba quella di recensire un film così.
Impresa improba quella di raccontare a parole, e quindi tendenzialmente in modo organizzato, un'opera così decostruita, anarchica, sensoriale e complessa.
E impossibile diventa anche consigliarlo un film del genere.
Per farlo bisogna sapere perfettamente chi si ha davanti, conoscerne i gusti e le attitudini.
Beyond the Black Rainbow sta al confine tra il cinema per come lo conosciamo e qualcosa che esula da esso, qualcosa che ha a che fare con l'arte tout court, visiva, concettuale, sperimentale.
Non è solo un film questo, ma la definirei più un'esperienza sensoriale.



Ecco, per certi versi direi che il film che più gli somiglia sia il fantastico Amer.
Tra l'altro buffo come entrambi -solo in parte il film francese, completamente BTBR- si rifacciano a certo cinema, specie italiano, degli anni 70.
E se per il primo il punto di riferimento era il nostro thriller dei tempi d'oro per quest'altro unico e spiazzante sci-fi canadese dobbiamo invece guardare alla fantascienza di 40 anni fa.
Ed è talmente radicale questo richiamo che, per quanto mi riguarda, paragonerei Beyond, come operazione con la sci-fi, a quella, bellissima, che fece Ti West con l'horror in The House of the devil.
Tutto richiama il cinema sperimentale degli anni 70.
Lo fanno le inquadrature, le musiche e specialmente la fotografia, così piena di filtri, luci irreali e distorsioni cromatiche da rendere la visione del film quasi psichedelica.
Per non parlare poi delle scenografie, tutti interni spogli e incredibilmente geometrici, anche questi visti principalmente in quelle stagioni di fantascienza di 40 anni fa.
Del resto la geometria, con tutti quei cubi e quelle piramidi, è veramente onnipresente.
E proprio una piramide diventa un pò il simbolo del film.
Siamo dentro una specie di base-laboratorio.
All'inizio c'è una specie di vhs con un filmato che fa tanto Dharma di Lost.
Si parla di una nuova fantomatica scienza che vorrebbe creare un mondo felice, un'umanità nuova. Tutto attraverso la tecnologia.
Si pensa quindi ad un film ad ampio respiro. E invece no, invece avremo una base immensa e quasi due soli personaggi dentro, lo scienziato a capo di questo progetto e la "cavia" utilizzata, sua figlia.
(qualcuno ha detto Utopia?)
La ragazza è in condizioni terribili. Vive in una stanza spoglia, nessun contatto con l'esterno.
La luce e la notte si alternano.



Pare un pò la scenografia e l'atmosfera dello splendido "15 milioni di celebrità" di Black Mirror.
E quando dalla piramide di cui sopra parte uno strano suono, un fastidiosissimo brusio, sembra andare quasi in catalessi.
Ma quella ragazza ha anche dei poteri, e li vediamo benissimo nella splendida sequenza alla "scanners" con la donna che lavora là dentro.
Cosa vuole lo scienziato?
Che tipo di esperimento sta portando avanti?
Diciamocelo, la narrazione in questo film è quasi assente.
Quello che lo rende unico e meraviglioso è la sua estetica, la sua potenza visiva e concettuale.
Elencare le scene esteticamente bellissime non si finirebbe più.
C'è ad esempio un flash back formidabile, quello che racconta (sempre che quello sia un raccontare) della genesi di tutto questo.
L'investitura dello scienziato e il concepimento di Elena.
Una scena tutta con un bianco sparatissimo, quasi da renderla un negativo.
Figura appena percettibili, di contorno.
E poi quel sole nero che pare un disegno ed invece è una specie di pozza da dove il nostro protagonista esce fuori, bagnato da una specie di catrame.
Impressionante.
E non è solo la componente estetica a rapirci, ma si avverte anche una forza trascendentale, spirituale, di devastante riuscita.

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Del resto questo è un film che parla di Dei umani, di creazione.
E i simboli in questo senso abbondano, vedi ad esempio gli occhi.
Anche se è abusato come riferimento, c'è dentro anche tanto Lynch.
Molti dialoghi e alcune messinscene (luci e spazi) lo ricordano.
C'è un dialogo in tal senso, quello tra lo scienziato e il creatore di tutto, Arboria, che è incredibile.
Denso, inquietante.
Anche merito dell'attore protagonista, Michael Rogers, una via di mezzo tra Manuel Agnelli e il Busignani di In a Lonely Place.
Prova straordinaria la sua, da pelle d'oca.
Come del resto indimenticabile è l'interpretazione della giovane Eva Allan. Una prova empatica, soffertissima. Anche se abbiamo il paradosso di trovare ancora più sofferto il ruolo dello scienziato, probabilmente prima vittima di tutto questo.
E' lui alla fine ad essere stato la prima cavia, lui stesso a subire trattamenti ed esperimenti (gli innesti, le pillole).
Insomma, ci troviamo davanti due personaggi vittime di una mente malata che ha giocato a fare il Dio (ah, il film richiama molto anche Ex Machina).
Tecnologia e spiritualità in un film lento, ipnotico, dalla difficilissima fruizione e comprensione.
Una visione che potrebbe allontanare o bloccare durante molte persone.
Io ne sono rimasto tremendamente affascinato, rapito, specie nella seconda parte (la prima, infatti, alla fine risulta troppo statica e ripetitiva).
E' fortissima la tematica del controllo mentale (e, in questo senso, Elena è sia vittima che "portatrice") in un film in cui tutti sembrano persone prive di volontà, solo semplici burattini manovrati da altri.
Come del resto lo sono le "guardie", figure esteticamente notevoli dal ruolo però quasi indefinito.
Ma ecco che il regista Panos Cosmatos tira fuori quello che, in qualche modo, durante la visione, avevo sempre sperato.
Ovvero uscire da quell'immaginario, uscire da quel mondo, uscire da quella base, uscire da quella estetica e portarci fuori, fuori da tutto, sia esteticamente che spazialmente.
Ed ecco così che nel finale Beyond si trasforma e diventa un film "quasi" normale, una specie di slasher anni 80.
Il passaggio da un film all'altro è spettacolare, virtuoso, tutto fatto attraverso quella scena dalla prospettiva impossibile di lei sul condotto di areazione. 
Non si respira più nel finale, dove prima l'apnea a cui ci aveva portato il film era più implosiva adesso esplode in un quarto d'ora molto vicino all'horror.
La cavia zombie, l'incredibile volto bambino della guardia, gli omicidi dei cialtroni nel bosco.

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E il nostro scienziato che, tolti gli "innesti", diventa qualcun altro (non a caso dialoga con il vecchio "sè" in macchina).
C'è una scoperta del mondo simile a quella di Room, c'è un piccolo accenno di sorriso, c'è una ragazza che sta uscendo dal controllo, sta assaporando la vita.
Che non è più una televisione dal segnale disturbato.
Ma erba e fango sotto i piedi.

8,5


23.2.17

Recensione: "La mia vita da zucchina"

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Per chi scrive questo è un capolavoro dell'animazione moderna.
Un film -dolcissimo ma non melenso, forte ma non necessariamente un j'accuse- su quel sacro, delicatissimo e meraviglioso mondo che è l'infanzia.
Quell'infanzia privata delle due figure cardine, i genitori.
Zucchina, gli altri 6 amici bambini e i loro 14 occhi dove, in nemmeno un'ora di tempo, potete perdervi e riflettere.
Girato poi nella tecnica che è atto d'amore per eccellenza, la stop motion.

C'è chi l'ha visti prima uccidere e poi suicidarsi davanti ai propri occhi.
Chi li aveva criminali.
Chi clandestini poi tornati nella loro patria.
Chi tossici, drogati e incapaci di tenerli con sè.
Chi ne subiva abusi.
O chi, come zucchina, ne aveva solo uno rimasto, alcoolizzato, e senza volerlo ne ha causato la morte.
Fatto sta che i bambini che stanno dentro quella casa comune non hanno più un papà e una mamma.
Se perchè erano inadatti, perchè sono morti o perchè sono in galera non importa, sono bambini senza più genitori.
Icare si fa chiamare Zucchina perchè è così che lo chiamava sua madre, quella madre di cui l'unico ricordo rimasto è una lattina di birra vuota.
Suo padre andò via, adesso è disegnato in un aquilone che Zucchina fa vibrare spesso nel vento.
Un aquilone e una lattina vuota, babbo e mamma.
Ma adesso la nuova famiglia di Zucchina sono questi bambini che hanno avuto il suo stesso destino.

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Capolavoro dell'animazione moderna La mia vita da zucchina è una riflessione straordinaria su quel meraviglioso, delicatissimo e sacro mondo che è l'infanzia.
Quell'infanzia che viene a mancare poi delle figure più importanti, quelle del padre e della madre.
Hanno 9 anni questi bambini, terribilmente pochi per non avere più genitori e terribilmente troppi per non averne il ricordo così vivo.
Girato con la fantastica tecnica della stop motion, a soli 30 secondi al giorno (lo ripeterò all'infinito, non c'è una sola arte e competenza nel mondo del cinema di cui io non abbia più stima e meraviglia) questo è un cartone di struggente sensibilità ma che ha il merito di non piangersi mai addosso, di non accondiscendere a nessuno, di non raccontare drammi terribili come avrebbe potuto fare ma, al tempo stesso, di non far scadere tutto in una smielosa storia a lieto fine.
I bambini del film sono bambini che possono vivere felici, che possono trovare mille affetti vicino a sè, che possono sperare in un futuro.
Bambini che possono TUTTO. Ma, al tempo stesso, quella malinconia, quel buco, quella mancanza non li abbandonerà mai.
E così piange alla fine la splendida Camille, piange per una possibile felicità inaspettata che si mischia ad un'infelicità radicata che, probabilmente, mai l'abbandonerà.
Piange da quegli occhioni che sono il simbolo se ce n'è uno di questa perla che tutto sugli occhi dei suoi personaggi si basa.
E' così importante quello che questi occhi raccontano che il corpo quasi non conta, è minuscolo, in questi personaggi dove il viso rappresenta un mondo intero.
Ma del resto ad un certo punto lo dicono esplicitamente "Lo si capisce dai suoi occhi".
C'è una scena importantissima.
Tutti i bambini sono in gita in montagna.
Ad un certo punto un altro bambino cade, la madre lo soccorre e lo abbraccia.
Loro guardano questa scena apparentemente così abitudinaria e banale.
Questa scena che ognuno di noi dà per scontata.
E invece no, loro quello o non l'hanno mai vissuto o non lo vivranno più.
E questo vedono.
Con questi occhi.

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Ma che bello che poi, per una volta, un film non sia solo di denuncia, non racconti solo di nefandezze o di adulti inumani, non giochi a fare il j'accuse su genitori non in grado di esser tali o strutture inadatte ad ospitare bambini di questo tipo.
Anzi, c'è il "coraggio" di raccontare di adulti notevoli.
Il poliziotto Raymond che inizia così tanto ad affezionarsi a Zucchina da considerarlo quel figlio ormai andato via.
La direttrice della casa comune che dietro la sua fisionomia e i suoi occhiali da arpia nasconde l'intelligenza che deve avere chi di bambini si occupa.
La ragazza che aiuta i bambini, così dolce.
E quel professore così entusiasta.
Sarebbe stato facile, specie in un soggetto come questo, far vedere il mondo degli adulti come mostruoso, specie se contrapposto a quello dei bambini.
E invece, vivaddio, che si mostrino questi uomini e queste donne che sanno provare e dare affetto, che sanno fare il proprio lavoro, che sanno essere umani.
Certo, non mancano adulti negativi come ad esempio la madre di Zucchina (che probabilmente si è ridotta in quel modo una volta rimasta sola) e specialmente la zia di Camille, lei sì schifosamente ripugnante.
Ma il "nostro" mondo ne esce bene o, quantomeno, ne esce "completo".

Si ride nel cartone, specie per i buffi modi in cui i bambini raccontano del sesso, con quel pisellino che scoppia e li fa preoccupare.
O come quando Ahmed fa continuamente gavettoni al poliziotto.
C'è divertimento, dolcezza, profondità.

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E c'è il personaggio di Simon, il bullo, che a me ha ricordato in un modo pazzesco un altro personaggio indimenticabile di un altro film "per ragazzi" indimenticabile, il Chris Chambers di Stand By Me.
Stessa sbruffonaggine, stessi modi da capetto. 
Ma anche stessa sensibilità, dovuta ad un passato troppo difficile per un bambino.
Ma quello che più li accomuna è un'intelligenza "pratica", una lucidità, quella che fa dire a Simon "Vai Zucchina, vai, perchè quello che ti sta capitando è un miracolo e dà speranza anche a noi".
Sembra il Chris che disse a Gordie di "andare avanti, di abbandonarli, perchè lui era diverso, era speciale, intelligente, avrebbe potuto fare grandi cose e diventare qualcuno".
E se ripensiamo che quel Chris lo interpretava River Phoenix, se ripensiamo alla fine che farà, allora il cerchio tra i due film è completo.
E' un film di profondo amore che viene esponenzialmente esaltato da questa tecnica che è amore per il proprio lavoro allo stato puro, che è anacronismo, che è fregarsene dei tempi.
Scusate ma io per la stop motion mi sciolgo...

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Zucchina.
La ribelle Camille.
Il rissoso Simon.
La speranzosa Beatrice che urla "mamma!" ad ogni macchina che arriva
Lo scherzoso Ahmed che non sopporta i poliziotti.
Il mentalmente devastato e dolce Jujube.
E Alice, simbolo su tutti dell'infanzia negata per sempre.
Con quella forchetta che sbatte nel piatto, rumore struggente se ce n'è uno.
Non sono solo 7 bambini.
Sono 14 occhi.
Provate a guardarci dentro, vi farà bene.
E riflettiamo su quei "nemmeno" del bellissimo finale.
Nemmeno, nemmeno, nemmeno.
Non c'è alcun motivo per non amare i propri figli se si è veri genitori.
Quel che sarà del loro futuro non si sa, intanto due hanno trovato una nuova casa che li fa piangere di felicità. 
Per il resto qualcosa accadrà.
Non sappiamo cosa.
Da qualche parte, come ci racconta il brano (meraviglioso) dei titoli di coda, le vent nous portera.
Ma del resto il vero nome di Zucchina è Icare, qualcuno che di vento e volo ne sapeva qualcosa.
Le vent nous portera.
Come fossimo un aquilone.



8.5

22.2.17

Recensione: "La Paura del Numero 13" - BuioDoc - 33 -




Vado su Netflix con l'intenzione, dopo mesi, di riprendere in mano (o ricominciare) la da me interrotta Making a Murderer.
E invece mi salta l'occhio su questo documentario che, per certi versi, ricorda la pazzesca vicenda di Avery.
Un uomo da oltre 20 anni nel Braccio della Morte che chiede di essere giustiziato, non ce la fa più.
La vera storia di Nick Yarris

Facciamo finta di non pensarci ma a volte immaginare quanti carcerati innocenti siano presenti nel mondo fa paura.
E mi voglio limitare solo a quegli Stati cosiddetti "civili", quelli dove ci sono "regolari" processi e dove, insomma, non prendono per strada uno e lo fucilano il giorno dopo.
Gli Stati Uniti, si sa, sono stati colpevoli negli anni di numerosissime e fragorose "sviste" (e chiamare sviste l'errore che ti priva di una vita fa ridere), alcune delle quali finite sotto i riflettori di tutto il mondo.
Ed è proprio andando su Netflix per riprendere in mano quella serie (che avevo interrotto ormai mesi fa dopo 7 puntate) che racconta di uno dei casi più famosi in tal senso, ovvero il bellissimo Making a Murderer ("Costruendo un assassino", dice già tutto) che, per sbaglio, mi trovo invece davanti, sempre su Netflix, quest'altro documentario per certi versi simile all'incredibile vicenda di Steven Avery.
Il protagonista di questa, forse meno assurda ma altrettanto pazzesca storia, è Nick Yarris.

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Due bianchi su due alla fine, uno a voler dimostrare che la giustizia americana i disastri li fa un pò con tutti, due che, forse, la grande rete americana ci tiene però a raccontare solo quelli dei white man.
Ma forse è solo un caso.
Siccome il documentario è costruito benissimo e fino alla fine non sappiamo come è andata a finire la vicenda di Yarris cercherò anche io nelle prime righe di non anticipare nulla. Semmai vi fermate quando potete.
Nick è nel Braccio della Morte, quello dei condannati alla pena capitale.
Il perchè sia lì non ci viene detto per almeno metà del documentario.
E se ci stia ancora dentro nemmeno.
Fatto sta che viene intervistato.
Alla sua intervista si intervallano delle immagini apparentemente scollegate, una doccia, un paio di guanti, un bambino che corre, e solo alla fine, grazie ad un montaggio davvero ottimo, capiremo l'importanza di ognuna di esse.
In più tutto quello che racconta Nick viene, ma sempre in modo molto trattenuto e non fictionizzato, mostrato sullo schermo.
Solo poche immagini che accompagnano le parole di Nick e il suo volto, praticamente onnipresente.
Parte così questo documentario tutto basato sullo scoprire piano piano le carte, pieno di immagini cinematograficamente notevoli (su tutte per me la lenta carrellata sull'asfalto che porta alle scarpe da donna) e che ha il merito di tenere lo spettatore attaccato fino alla fine.
E meno male che a metà del suo tragitto iniziano ad accadere (essere raccontate) parecchie cose perchè ad un certo punto, lo ammetto, la vicenda iniziava a perdere d'interesse e a farmi dubitare che "meritasse" un doc.
Nick inizia a raccontare, si sente che padroneggia molto bene la lingua e l'arte del racconto, scopriremo poi bene perchè.

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E niente, piombiamo direttamente nel carcere della Pennsylvania, una prigione dove i carcerati vengono quasi fatti combattere in delle gabbie ed è persino proibito anche parlare.
Fino alla notte in cui un uomo innamorato di un altro uomo canta la sua canzone d'addio.
E poi abbiamo la prima svolta, Nick che, nel trasporto verso il Tribunale che avrebbe trattato il suo caso (che noi ancora non conosciamo) riesce fortunosamente a scappare.
E poi la latitanza e poi il nuovo arresto.
E poi, d'improvviso, i libri.
E così questo giovane ragazzo poco più che analfabeta inizia a divorare storie e parole, inizia ad "evolvere". Specie l'amore per le parole è pazzesco. Non a caso il titolo del doc, "La Paura del 13", è riferita ad una parola difficile che Nick impara, Triscaidecafobia.
Conosce poi una donna che visita il carcere per difendere i diritti dei detenuti. Si innamorano a vicenda. E sono bellissime le sue parole al riguardo, quella necessità di avere una donna per completare quell'evoluzione che, altrimenti, non ha più possibilità di crescere.
Ed è da qui che, piano piano, iniziamo finalmente a scoprire la storia di Nick.
Ladruncolo e tossico finisce in prigione per aver reagito in malo modo al fermo per strada di un agente. Ancora scosso ed impaurito il ventenne Nick decide di attuare un piano per uscire che non ha alcun senso, ovvero quello di fornire indicazioni su un omicidio avvenuto in quei giorni (di cui lui non sa nulla).
Fatto sta che per una cosa quasi da niente sarà lui stesso ad essere accusato di quell'omicidio.
E quindi sarà Braccio della Morte, e quindi sarà vita fuori privata per sempre.
E intanto le immagini dell'inizio tornano più volte, bellissime. Se ne vedono altre come quella, formidabile, dentro al tappeto rotolante.

Poi nel mondo arriva la prova del Dna.
Per Nick è un miracolo, sa di non aver fatto nulla, sarà la sua salvezza.
E invece, e qui davvero la sua vicenda ricorda quella di Avery, più volte accadranno inspiegabili disavventure riguardo il suo dna, prima non trovato, poi trovato ma non buono, poi trovato buono ma manomesso durante un trasporto.
Nick si scoraggia, lascia la donna che l'ha aiutato per anni, la lascia libera, come è giusto che sia.
Si ammala persino.
E decide allora di farla finita, farsi uccidere prima possibile.
Ma proprio quando ormai la sua vicenda, ovvero la richiesta di essere giustiziato entro 60 giorni, sta per essere esaminata ecco che finalmente accade qualcosa.
Documentario molto simile per costruzione a quel capolavoro che fu l'Impostore.
Non arriva a quei livelli ma ha il merito di crescere sempre di più e tenerti fino alla fine con la voglia di scoprire cosa è successo poi.
Quello che semmai si fa fatica a capire è come un uomo così del tutto innocente abbia accettato la condanna a vita così, apparentemente, a cuor leggero.
Prima della faccenda Dna, infatti, Nick non fa mai alcuna menzione alla sua innocenza e a qualche tentativo fatto per scagionarsi. Anzi, rivela che alla sua amata ha detto di essere innocente solo dopo molti mesi.
E non si capisce se tutto ciò sia dovuto alla costruzione step by step del doc oppure ad un uomo che odiava sè stesso e che quindi ha comunque accettato una punizione così terribile.
Solo i libri prima e l'amore poi, infatti, sembra che l'abbiano portato a "riconoscersi", accettarsi, stimarsi. Forse questi due elementi sono stati la spinta per lottare poi.
Ed è perfetto che solo alla fine ci viene rivelato cosa rappresentasse quel bambino che correva nel bosco.

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Prima c'è il bellissimo racconto della pioggia che batte sulla serranda, lui, il suo cane, una coperta e solo quel rumore.
Poi c'è un bosco.
E nel bosco spesso ci sono gli orchi.
Probabilmente tutto quello che Nick nella sua vita ha fatto ed è stato dipende da quel giorno.
E così in montaggio parallelo e analogico abbiamo due docce, quella di Nick bambino che si toglie l'orrore di dosso e quella del Nick adulto che profuma di libertà.
Perchè, magari, adesso te ne sei liberato Nick.
Sia di quel mostro che di 20 anni e più passati in carcere.
Avanza ancora il tempo di essere felici.


20.2.17

Recensione: "Darling"

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Pieno di clichè, tutto visto e rivisto.
Ma con un grande stile, un uso del sonoro pazzesco, un montaggio superbo e un'attrice perfetta.
Tutto quello che può rendere, anche senza plot, un film veramente grande.
Pazzia? Demoni mentali o non mentali?
Tra Shining e Polanski un piccolo grande film

questo film fa parte de La Promessa (2 su 15)

presenti spoiler dopo la metà

Può un film senza la minima originalità di trama, pieno di clichè, senza alcun snodo narrativo interessante essere un gran film?
Darling è la dimostrazione di come il cinema possa essere tante cose e di come anche solo alcune di queste tante cose possano sopperire alla mancanza di altre.
Appena finito di vedere mi sono fiondato subito nella filmografia del regista, tale Mickey Keating, rendendomi conto che o questo l'ha girato suo fratello oppure il contrario, è suo fratello (che non so nemmeno se ha) ad aver girato gli altri.
Fa specie infatti che un regista capace di tirar fuori Darling abbia fatto quell'altra robaccia.

16.2.17

Recensione: "Maelstrom"

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Alle radici del regista del momento, Denis Villeneuve.
Finalmente arrivata da noi la sua opera seconda.
E che dire, Maelstrom è un film bellissimo, psicologicamente magistrale.
In una cornice allucinata e terribile di pesci maciullati abbiamo la storia di Bibiane, dei suoi sensi di colpa, della sua lenta discesa verso l'abisso, dei suoi incroci col destino e, forse, di una possibilità di rimetter la testa fuori.

presenti spoiler

E scoprire così che Villeneuve, grande, lo era sin dall'inizio.
E' un pò un errore comune quello di aver considerato Polytechnique il suo film d'esordio. Per anni l'abbiamo pensato in tanti.
E invece, piano piano, più il regista canadese diventava grande, anzi, grandissimo, più iniziavamo ad avere curiosità ed informazioni su di lui.
Per poi scoprire, chi prima chi dopo, che c'erano due film praticamente sconosciuti come sua opera prima e seconda.
Introvabili tra l'altro.
E adesso quei film sono arrivati anche da noi.
E il secondo di questi, Maelstrom, è bellissimo.

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Quello che fa specie è scoprire che Villeneuve ne ha curato interamente la sceneggiatura, lui che praticamente l'ha sempre affidate poi -al massimo collaborandovi insieme- a mani esterne.
Perchè lo script di Maesltrom è un grandissimo script, denso, psicologicamente perfetto, pieno di incastri e con una cornice a dir poco allucinante.
Ecco, in Maelstrom sembrano esserci abbozzati tanti dei temi e degli stili che Villeneuve porterà poi nei suoi film più grandi.
Il fratello e la sorella di Incendies, la piccola vicenda che diventa quasi Mito sempre di Incendies, i dilemmi morali ed etici di Sicario e Prisoners ma soprattutto una densità psicologica pazzesca, quel continuo stare a galla tra sanità e pazzia, che sarà poi fulcro di Enemy.
Eppure se proprio dovessi dare dei riferimenti che riassumano perfettamente questo Maelstrom io direi che sembra un 21 grammi girato da Trier.
Del capolavoro di Inarritu riprende molto delle dinamiche (incidente stradale, morte, conoscenza tra il parente di chi è morto e l'incauto assassino. E potremmo anche collegare il ruolo di Penn a quello del ragazzo di Maelstrom volendo. Tra l'altro lei somiglia molto alla Watts) e una certa atmosfera carica di dolore.
Ma, non solo, ne riprende anche una sceneggiatura a incastri (anche se più soft di quelli di Arriaga) e un senso pazzesco del destino.
Ma tutto sembra poi messo in una cornice che a me ha ricordato tantissimo Trier.
Vuoi perchè il mondo scandinavo, benchè il film sia ambientato in Canada, è molto presente, vuoi per una certa grana fotografica, vuoi per anche una lievissima carica umoristica in alcuni passaggi (penso al collegamento della perfetta scena del polpo coriaceo, quella in cui si scopre che il pesce non era di qualità proprio perchè era morto il pescatore ucciso da Bibi) ma, soprattutto per quella allucinante cornice del mattatoio dei pesci, così assurda, tetra e surreale (mi ha ricordato molto quella dei down di The Kingdom), per l'uso di voice off che racconta e di didascalie.
Insomma, una via di mezzo tra gli arzigogoli di script e il verismo di Inarritu e la sperimentazione trierana.

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C'è un pesce tremendamente maciullato che, in una location infernale e splatter, ci racconta una storia. Praticamente, se ci pensate, è la stessa cornice che avrebbe potuto esser presente in Incendies volendo, un'escamotage che dà alla storia che vedremo un'aura universale, mitologica, paradigmatica.
Come se quello che vedremo fosse una favola nera che va al di là delle strette vicende raccontate.
Ed è la storia di Bibiane, una giovane donna (interpretata dalla bellissima e formidabile Marie-Josèe Croze, vista tra l'altro nello splendido Non dirlo a nessuno), dicevo è la storia di una giovane donna e della sua lenta, lentissima discesa psicologica verso l'abisso.
Il film si apre con un aborto (non sappiamo nè perchè nè di chi fosse il figlio) e questo marchio di senso di colpa non si toglierà di dosso a Bibiane per tutto il resto del film.
Anzi, in rapidissima sequenza i sensi di colpa di Bibiane diventeranno parecchi altri.
Su tutti l'aver fatto perdere all'azienda di famiglia un mucchio di soldi e l'aver involontariamente investito un uomo, causandone la morte.
In appena un giorno o due Bibiane ha dato la morte volontaria al suo futuro bambino, quella involontaria ad uno sconosciuto e ha perso il lavoro.
Tra l'altro ognuno di questi aspetti rimane segreto, suo e di pochi altri. E il senso di colpa segreto, quello che non puoi condividere con nessuno, è forse ancora più assassino.
Parte un film che per almeno un tempo è davvero straordinario.
Si respira fatalismo dietro ogni porta, c'è angoscia, una sensazione di apnea, di asfissia, il dramma della protagonista (eticamente e moralmente persona certo discutibile) è vissuto dallo spettatore in maniera perfetta.


E poi si torna ogni tanto in questa cornice pazzesca e straniante di sangue, decapitazioni di pesci e maciullamenti.
Con questa voce che racconta che sembra saper tutto, che sembra volerci dire che quello che vedremo, forse, è un insegnamento, che tutto alla fine ha una morale.
I pesci cominciano a spuntare dapertutto, anche nel film "normale".
Pesci, acqua e quel titolo, Maelstrom, che la dice lunga.
Sì, perchè con una simbologia perfetta che alla fine collassa tutta insieme il film racconta di mare, di pesci, di Norvegia (l'uomo che lei uccide è norvegese) e proprio in Norvegia è quel gorgo che dà il titolo al film, quel Maelstrom, che non è altro che l'abisso nel quale sta finendo la protagonista, sempre più giù, sempre più giù.
E se la sua fine sembra legata alla Norvegia così lo sarà anche la sua salvezza.
E non è un caso che il figlio dell'uomo ucciso, anche lui norvegese, di professione faccia il sub, il sommozzatore, sia quindi l'uomo perfetto per riportar su a galla una donna che sta lentamente affogando.
E che in realtà, di affogare, ha rischiato davvero, lei dentro quella macchina che rappresenta il suo senso di colpa (anche qui mi ricorda 21 grammi) quella macchina che prima si prova a lavare e poi a far scomparire come fosse una coscienza.
Ma la vita ha dato una seconda chance evidentemente a Bibiane.
E questa seconda chance avrà un vestito realizzato perfettamente da un sarto Destino.
L'incontro che sarà fulcro della seconda parte del film (per me più debole, prevedibile e classica) sarà al tempo stesso un modo per fuggire via dall'incubo ma anche, paradossalmente, per entrarvi ancora più dentro.
Quel figlio della persona uccisa è il gorgo finale, insieme beffa tremenda e insperata speranza.
E il fatalismo del film diventa sempre più grande con quest'uomo la cui madre annegò, con quest'uomo che doveva prendere un aereo in cui, si saprà, moriranno tutti.
Ed è lei ad averlo salvato da quel volo, lei che forse, adesso, ha un pò pareggiato quel conto terribilmente in perdita col fato e con la propria coscienza.

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"Sei un angelo" le dice lui 
"Ti Amo" le dice sempre lui la sera stessa che l'ha conosciuta, perchè i sub sono uomini da decisioni prese in fretta si sa.

E però è quello l'angelo che gli ha portato via un padre e che fino a quel momento ha fatto finta di nulla.
Ma per uscire finalmente dal Malstrom, per poter riportare la testa fuori, la verità va detta.
E porterà ad una crisi, e porterà ad una scena magnifica, simbologicamente perfetta, quella delle ceneri gettate addosso a lei, a chi l'ha causate.
Ma un'aspirapolvere pulirà tutto.
E poi sarà una nave, là in Norvegia, là proprio nel pezzo di mare preciso dove è nata la leggenda del Maelstrom.
Ma il mare è calmo, la nave procede tranquilla, c'è un abbraccio.
Perchè il Maelstrom di Villeneuve non è un luogo fisico ma mentale.
E una donna è riuscita a venirne fuori.
Rimane ancora un pesce maciullato che, forse, vuole dirci non solo la morale di questa favola nera, ma il senso stesso della vita.
Ma come accadde a Caden Cotard questo senso, questo nome dello spettacolo, non potrà esser detto.
E stavolta il "die" è una mannaia sulla testa



14.2.17

Recensione "Reversal"




Prima o poi tornerò a vedere e recensire tutti i bellissimi film che ho in lista da vedere, in sala o no. 
Ma in questo periodo in cui elemosino davvero due ore libere riesco solo a buttarmi, ogni tanto, sul thriller e l'horror.
E anche stavolta l'ho fatto senza alcuna aspettativa, giusto per vedere qualcosa.
E invece Reversal è un thriller a tratti sorprendente, "nuovo", diverso, che batte strade alternative a quelle di tanti altri.
Certo, ha assunti e derive improbabili, però, signori, questo film osa. E osa anche nel non spiegare troppo.
E ha una grande regia e una grande interprete.
Ma ce ne fossero, ce ne fossero come Reversal

presenti spoiler

Al netto di pregi e difetti è un sì, un assolutamente sì cazzo.
Ero straconvintissimo che mi sarei trovato davanti il solito film di prigionia e invece no, Reversal è un thriller che cerca continuamente di scompaginare le dinamiche viste e riviste nel genere.
Se non fosse per qualche assurdità di trama (e un soggetto talmente improbabile e strampalato da far fatica a renderselo credibile ) direi addirittura che questa opera prima (o seconda, non ho capito) di tal Cravioto potrebbe tranquillamente diventare un piccolo cult.
Quello che è sicuro è che questo per me è il modo di affrontare il genere, con strade laterali, con sceneggiature anche pazze ed improbabili, ma "nuove".
E poi lo stile, ragazzi, c'è, eccome.

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Una ragazza è tenuta prigioniera in un laido scantinato.
C'è di tutto per vedersi un altro Split, un Room o uno delle miriadi di film su ragazze rapite.
E invece dopo 5 minuti c'è subito il colpo di scena.
La ragazza si libera.
Ecco allora che quel, al solito, banale ed evitabile sottotitolo italiano, "La fuga è solo l'inizio", per una volta almeno centra perfettamente la vera particolarità del film di Cravioto.

12.2.17

Recensione: "I Gangsters" (1946) - Il Bar dei Nottambuli, viaggio nella storia del noir americano - 9 - Di Fulvio Pazzaglia


Torna il nostro esperto di cinema classico, Fulvio.
Siamo ormai al nono appuntamento con il suo viaggio nella storia del noir americano.
Sempre un piacere leggerlo

Era il 1946 quando un lungimirante e coraggioso produttore indipendente, Mark Hellinger, decise di acquistare i diritti per la trasposizione cinematografica di un racconto di Ernest Hemingway, The Killers. Il plot del racconto, un pugile in fuga che attende rassegnato la sua esecuzione per mano dei sicari di un gangster, servì come prima parte per il film diretto da Robert Siodmak e sceneggiato da Anthony Veiller (nonché da John Huston, il quale però non compare nei crediti).
Questa pellicola segna la consacrazione di due grandi icone di Hollywood: Burt Lancaster, fino ad allora sconosciuto, nei panni Peter Lunn lo Svedese e Ava Gardner in quelli della femme fatale Kitty Collins.

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Le musiche inquietanti di Miklos Rosza ci calano immediatamente nell'atmosfera cupa e incalzante di una marcia di morte: i titoli di testa si aprono in una strada notturna percorsa ad alta velocità; le silhouette di due uomini in trench e borsalino incombono come avvoltoi nel parcheggio malamente illuminato di una tavola calda. Si apre il dialogo martellante e ossessivo tra i due sicari e il gestore del diner, un dialogo che ripercorre fedelmente quello del racconto di Hemingway e che non ha nulla da invidiare a Tarantino.
La coppia di assassini terrorizza il gestore rivelandogli l'intenzione di freddare lo Svedese, il quale avrebbe dovuto trovarsi a cenare proprio lì. Non trovandolo, i killer si muovono alla sua ricerca.
Nick, il giovane collega dello Svedese e testimone della scena, corre subito ad avvertirlo del pericolo imminente, ma Peter si mostra rassegnato dinanzi al proprio destino, manda via Nick e resta ad attendere che gli assassini portino a termine il proprio lavoro.
Qui finisce la traccia di Hemingway e comincia il lavoro inedito degli sceneggiatori, che ricamano una vicenda tra il noir e la gangster story.
Seguiamo le indagini del detective Jim Reardon (un magnifico Edmond O'Brien), che ricostruisce l'intero antefatto dell'omicidio.
L'intreccio della storia è narrato discontinuamente ed è articolato in flashback, ognuno dei quali mostra il punto di vista dei singoli personaggi.


La bellezza e l'originalità di questo film risiedono proprio nella coralità della vicenda, nella quale tutti i personaggi che compaiono sono a loro modo protagonisti della storia: quella di Peter Lunn lo Svedese, l' ex pugile che si unisce alla banda di Big Jim Colfax (Albert Dekker) per compiere la grande rapina ma che si innamora della donna del capo, Kitty, e decide di fuggire con lei e col bottino. Kitty ha però in mente altro e pianterà in asso Peter, lasciandolo solo a subire la vendetta dei complici traditi.
Ma l'indagine serrata di Reardon porterà alla chiusura del cerchio, che si stringerà sempre più attorno al mandante dell'omicidio, agli esecutori dello stesso e alla traditrice Kitty, riuscendo amaramente a dare giustizia postuma allo Svedese.
Se con questo film Burt Lancaster esce dall'anonimato con la recitazione dolorosa e sofferente, tragica e travagliata di un uomo distrutto dalla fatalità delle scelte sbagliate e dall'amore maledetto per una donna cinica e manipolatrice, Ava Gardner si consacra come diva del grande schermo interpretando un personaggio angelico e luciferino allo stesso tempo (nello stesso anno vincerà il premio della rivista Look).
La grande rapina, la donna del capo, la fuga col bottino, sono tutti elementi che gli sceneggiatori elaborano dalla ricca tradizione dei gangster movie degli anni '30. Più avanti vedremo come questo filone ancora vivo si mescolerà di nuovo con il noir.

11.2.17

Il Senso della Vita, ovvero 30 film esistenzialisti o che si pongono grandi domande - Parte 2

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Ed eccoci alla seconda parte della lista proposta ieri.
Per sapere, bene o male, di che si tratta vi invito a cliccare qui e vedere la prima puntata.
Partiamo

i titoli portano alle recensioni



L'importanza delle nostre emozioni.
Di tutte le nostre emozioni.
E di come sia necessario farle stare insieme, dare a ciascuna di esse il proprio spazio, per poter, forse, essere felici


L'ho scritto più volte, difficilmente troverete un film con dentro più possibili interpretazioni e tematiche.
Quello che è sicuro è che Magic Magic è un film sull'asfissiante e soffocante difficoltà di stare al mondo



Per un certo verso questo è lo Still Life orientale.
Perchè se è vero che i due film sono diversissimi tra loro entrambi trattano la morte, la partenza, con una delicatezza, un rispetto e una serenità infinita.
Uno di quei film che fanno bene all'anima


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E se il senso della vita -in una vita poi che nemmeno ha più senso- lo si ricercasse in un corpo morto?


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Sembra un ghost movie molto elegante.
Sembra solo questo.
Non lo è.
Se la lettura che gli diedi è quella giusta questo è un film dall'anima e dal significato grande


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Perchè è il mio film definitivo sul mal di vivere



Il film esistenziale se ce n'è uno.
Quello libero da ogni aggiunta, orpello, struttura.


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Il film delle scelte.
Della difficoltà di farne una.
Dell'impossibilità, a volte, di poterle fare.
Capolavoro



Perla dell'assurdo e del grottesco sembra "solo" un film strambo e divertente.
Ma a me parve invece un film che in ogni gesto, in ogni inquadratura, in ogni dinamica, sembrava raccontare della vita e dell'impossibilità di riuscire a coglierla nitidamente


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Il film sul Dolore e sulla Sofferenza.
E quello sui rapporti padri-figli, sul ricordo, sul non dimenticarsi mai


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Può esistere l'amore eterno?
E a che gesti possiamo arrivare, a fine vita, per amore?
Haneke, la vecchiaia e l'indissolubile legame di una coppia



Andersson e la sua visione grottesca, disperata, fredda e priva di speranza dell'umanità.
Non ne usciamo fuori bene, ma che bellezza



La difficoltà nel capire fino in fondo questo film è pari solo alla sua meraviglia.
Il senso di colpa restituito nel cinema come raramente si è visto prima


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Surreale.
Un uomo che arriva in una città dove tutti sembrano felici.
Ma niente ha sapore ed odore.
Una grandissima riflessione sulla nostra società, sulla morte dell'individualismo e sulla ricerca della felicità


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Come disse un lettore non è un film con tutta la vita dentro, ma è la vita con dentro un film