28.3.10

Recensione: "Lebanon"

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Lebanon, vincitore a Venezia 2009, opera prima di un regista israeliano, Samuel Maoz.
The Hurt Locker, trionfatore agli oscar 2010.
Il grande cinema di guerra ritorna a mietere successo dopo quasi 2 decenni di semibuio susseguenti ai magnifici anni '80 ( Apocalypse now, Platoon, Good Morning Vietnam etc...). Due film straordinari ma molto diversi tra di loro. Lebanon racconta, quasi in tempo reale, l'incursione di un drappello di militari, un carrarmato e dei paracadutisti, in un centro abitato, non meglio identificato, del Libano, appena bombardato dall'artiglieria israeliana. Siamo nel 1982, 1° guerra del Libano. All'interno del carrarmato, chiamato Rinoceronte, 4 giovani ragazzi.
L'esperienza di guerra dei quattro ragazzi è pari a 0. Probabilmente sbagliano qualcosa, e si ritrovano così soli dentro il blindato senza possibilità di venire salvati.
E' difficile dire se il più grande merito di questo film sia la sua assoluta sperimentalità o il messaggio che vuole darci. Riguardo il primo aspetto Lebanon è veramente un film straordinario nel senso etimologico del termine. Tranne nella prima e ultima inquadratura infatti, ci troviamo SEMPRE all'interno del carrarmato, e il nostro occhio non è più quello umano, ma il mirino del cannone. La sfida del regista è vinta perchè malgrado lo spazio angustissimo in cui ci catapulta, riesce a mantenere per tutta la durata del film una grandissima tensione. 

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Lo spazio limitato rende ancora più devastanti e definite le emozioni che i 4 ragazzi provano all' interno. Siamo lì con i loro e come loro non abbiamo la minima possibilità di evadere, sia fisicamente che mentalmente. Dobbiamo star lì e pensare lì, perchè la minima distrazione o un calo di attenzione potrebbero essere fatali.
Riguardo il messaggio che il film ci lascia mi piace notare come Lebanon ci parli dell' esatto sentimento contrario a quello raccontato in Hurt Locker. Mentre il film della Bigelow ci raccontava infatti l'assoluta necessità del protagonista di stare DENTRO la guerra, del rapporto quasi di dipendenza che si era instaurato tra lui e il teatro bellico, Maoz ci parla dell'assoluto contrario, del trovarsi catapultati, assolutamente impreparati, a dover combattere, al dover uccidere, e conseguentemente, Lapalisse, al terrore di restare uccisi. Non è questione di coraggio nel primo caso e di paura nel secondo, la distinzione la fanno l' incoscienza e la consapevolezza. E, forse, non sono i 4 ragazzi terrorizzati ad essere immaturi come sembrano; forse, lo è ancor più l'artificiere di Hurt Locker. La vita è una cosa meravigliosa. Ce ne è stata data una, una soltanto, e non volere perderla è sintomo di maturità e attaccamento ad essa.

( voto 8 )

24.3.10

Recensione: "Il Nastro Bianco"


ll Nastro Bianco è un film dalla portata difficilmente calcolabile. Vincitore della Palma D'Oro, dell' EFA come miglior film europeo e del Golden Globe come miglior film straniero la nuova pellicola di Haneke si infila senza discussioni nella ristretta cerchia dei capolavori cinematografici, di quei film che sembrano uscire dalla pellicola e impiantarsi nelle coscienze, quei film in cui il significato, il messaggio che nascondono è molto più forte del significante, delle immagini (malgrado la superba fotografia in bianco e nero).
Paesino tedesco, anni 12/13 del '900. La tranquilla vita rurale e monotona del paese viene "movimentata" da uno strano incidente al dottore, disarcionato dal suo cavallo per colpa di un filo teso tra 2 alberi. Piano piano, giorno dopo giorno, altri piccoli e grandi episodi si susseguono. I meno scossi sembrano i bambini del paese...
Siamo in un paesino all'inizio del Novecento, una di quelle realtà in cui il Sindaco ( qui il Barone), il Medico e il Prete ( o Pastore) sono le tre autorità riconosciute da tutti. Società ottocentesche in cui i Figli devono rispettare i Padri, rigorosamente dandogli del Voi, senza alcuna possibilità di replica. Padri per giunta violenti, stupratori, intimidatori, senza alcun senso della famiglia, dell'umanità e dell'amore. L'unica libertà per questi figli, peraltro limitata, è quella di ritrovarsi e giocare insieme. E stando insieme, forse, iniziare una ribellione...

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Qualcosa sta cambiando nel paese e nel Paese. Se anche il figlio del Barone è soggetto di violenza vuol dire che sta per crollare qualcosa, lo Status Quo autoritario e definito da anni  è pericolosamente minato da forze nuove.
E intanto, in contemporanea, l'Arciduca Francesco Ferdinando viene ucciso...
L' Austria dichiara guerra alla Serbia scatenando una reazione a catena, la Prima Guerra Mondiale è ormai cominciata.
Niente sarà più come prima, nè al paesello contadino, nè nel resto del mondo. E questi bambini, oppressi e violentati a 8, 10, 12 anni ne avranno 30, 35 , 40 in anni ancora più bui, e saranno loro i nuovi padri, potranno loro esercitare quell'autorità subita in infanzia.
E come in quella che forse è la scena madre del film, ovvero l'uccisione, in gabbia, dell'uccellino del padre da parte della figlia, forse quei bambini si sentivano come quell'uccellino a cui il volo era vietato. Uccidere quel piccolo essere aveva un profondo significato: la vostra autorità è finita, preferiamo morire, ucciderci, non essere più bambini da tenere in gabbia ma cominciare a diventare qualcos'altro. E il nastro bianco legato al braccio, simbolo imposto di una purezza da preservare, potrebbe diventare in futuro di un altro colore, questa volta nerissimo.

( voto 9 )

6.3.10

Recensione: "Shutter Island"

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Credo che questo sia uno di quei film che necessiti assolutamente di una seconda visione. E non per capirci di più ma per rivederlo alla luce di quello che, solo adesso, sai.
Film non facile insomma, basato sul gioco di cos'è vero e cosa non lo è, qual è la verità, quale la menzogna. Opera torbida, dura, mentale, fastidiosa a volte sia visivamente che psicologicamente, pellicola nella quale la memoria individuale si incrocia con la Memoria, quella storica, dove i delitti del singolo uomo giocano a dadi con quelli dell' Uomo, i più nefandi, i più terribili.
L' agente federale Teddy Daniels si reca nell'isola penitenziario di Shutter Island dove sono imprigionati e curati molti criminali malati di mente. Il pretesto è la sparizione di una paziente, la realtà è che l'agente Daniels vuole smascherare le pratiche aberranti che subiscono i detenuti da parte dei medici aguzzini. Questo almeno è quello che sembra, ma la realtà, quella vera, è molto diversa...
Il film, come accennato, è molto torbido. Alterna scene dell'eccidio nazista dei campi di concentramento ad altre di malati mentali ridotti a larve, omicidi plurimi di bambini (filicidio per giunta) a discorsi sulla lobotomizzazione. Come si mischiano tutte queste cose? Durante la visione è difficile cogliere un senso ma poi Scorsese nel magnifico sottofinale sul faro (luce, verità) ci spiegherà tutto. E rimarremo spiazzati, meravigliati, colpiti nel più profondo dell'anima. Altri film hanno giocato lo stesso gioco di Scorsese, ma qui, almeno per conto mio, questo gioco era veramente nascosto nel migliore dei modi.
Il capolavoro però è il finale.




E mi sono accorto sia in sala che nel tempo, specie in videoteca, che pochissimi hanno prestato attenzione a quel finale, a quella frase che, quando tutto sembrava ormai in un certo modo, riesce a ribaltare ancora il film e a daegli un significato tutto nuovo. (la terapia funziona davvero).
Asoltatele quelle ultime parole del protagonista (similissime, tra l'altro, a quelle di Oldboy), guardate gli atteggiamenti di tutti e pensateci.
Grande film, immerso in un'atmosfera magnifica di scogli e tempeste, manicomi e cimiteri.
Opera nel quale il ricordo, il suo riaffiorare, o meglio, il modo in cui riaffiora, giusto o sbagliato, segna da solo la famosa linea rossa, il confine tra sanità di mente e pazzia.

( voto 8 )